Quando l’ho aperto, sono rimasta senza parole…

Sarà il periodo, eh si… Sarà per quello che non mi va più molto di ridere… Boh, la volta scorsa ero più tranquilla. Sembrava un evento eccezionale, una cosa da affrontare con l’adrenalina dello scatto, con la quale arrivi in fondo senza fiato, ma poi basta. Poi bevi, poi ti metti le mani sui fianchi per tirare i fiati lunghi e lo sforzo lascia il posto all’endorfina, e sei felice. Ma avevamo capito male. O almeno, io avevo capito male. 

Questa cosa andava affrontata come una campestre lunga, almeno una mezza maratona, per non andare a scomodare la regina delle corse con i suoi 42 km e rotti. 

Oppure andava affrontata come ha fatto il mio nerd, perché poi, alla fine, sempre lì si torna. Io avevo un bel prendere in giro la sua capacità di astrarsi, chiudersi nella bolla, di creare universi paralleli solo con il pensiero, di viaggiare in forma digitale e di perdersi per giornate intere nel web. Eh, sì, faceva ridere. Peccato che adesso io questa cosa la riconosca come un vantaggio evolutivo non da niente, e dove gli altri cedono (io, per esempio) lui fiorisce.

In questa fioritura, oltre a trovare l’energia per reggere se stesso e anche me, c’è spazio per una ricerca artistica che non avevo saputo prevedere. In questi giorni stanno arrivando a casa nostra oggetti, libri e stampe di una bellezza che non vi so spiegare. Ok, magari sono immagini vintage della Nasa, o scatti fotografici e artistici di processori che non saprei neanche definire. Ma sono belle. E la bellezza sta prendendo il suo spazio nella nostra casa, lentamente, tranquillamente, silenziosamente.

Poi, questa mattina è arrivato l’ennesimo corriere (i quali devono fare il gesto di chiedere se siamo noi i destinatari, ma siamo al livello di chiamare per nome quasi tutti i consegnatori ufficiali), con l’ennesimo pacco. 

“È un libro” mi anticipa lui, “un libro di 800 pagine. Ho visto qualcosa su IG e mi sono commosso, quindi l’ho preso”. In che senso, commosso? 

“Ho un cuore anche io… ho visto queste foto e mi sono commosso. Quindi ho pensato fosse giusto acquistare il libro”. Il libro è un libro fotografico, e si intitola, appunto “VIRUS”. L’ha realizzato un fotografo e artista francese che si chiama Antoine d’Agata. Vi ho messo il link perché su IG ci sono alcune delle foto contenute nel libro, e vi consiglio di farci un giro. Il suo è un progetto nato nella scorsa primavera, in occasione della prima ondata di Covid in Francia. Lo so cosa state pensando, perché l’ho pensato anche io, ma no, non è il solito libro con le foto strappalacrime. Cioè, sì una lacrima forse arriva, ma per un altro motivo. La lacrima arriva perché per la prima volta, il Virus, la sofferenza, la tragedia sono diventate arte, e la trasfigurazione lascia senza fiato. Se avete già avuto la curiosità di andare a cliccare sul profilo lo sapete, altrimenti andateci adesso, oppure fidatevi di me se vi dico che questo progetto è geniale.

Provo a spiegarvi perché, per come l’ho capito io. 

Le foto non sono foto normali. Le foto sono state tutte (a parte credo tre o quattro alla fine del libro, che dopo 800 e rotti pagine di immagini coerenti con lo stile del progetto, arrivano come una sberla in piena faccia, ma proprio a mano aperta e con la rincorsa) realizzate con la tecnica dell’infrarosso. In pratica, il soggetto fotografato viene ritratto come una fonte di calore corporeo e le sue forme vengono disegnate con una tavolozza che ammette solo toni dal giallo, all’arancione, al rosso e al nero. Come quello che si vede nella visione notturna nei film di guerra… tipo quella roba lì. Ma se l’occhio di chi guarda è l’occhio di un artista, tutto cambia. Antoine d’Agata è andato in giro ai tempi del primo lockdown e ha raccontato la solitudine, la distanza, il silenzio, la paura. E poi è andato negli ospedali, e ha fotografato malati, medici, tubi di respirazione, terapie intensive, monitor medici: tutto il repertorio. Eppure, anche per chi ormai sente queste parole e vede queste immagini ogni giorno, ripetute, ossessive, come capita a tutti noi, sembra di vedere questo mondo per la prima volta. E fa paura. E fa commuovere. E fa fermare. 

Nelle sue foto, l’umano non è più umano. L’umano è solo la sua vita e la sua debolezza. L’umano non ha più una faccia, e diventa tutti. Non è più il vecchietto del tg, che “tanto io non sono in fascia a rischio”, ma diventa un essere umano archetipico, quindi te, quindi me, quindi la persona che ami di più al mondo.

Non ci sono le immagini iconiche dei segni delle mascherine che solcano e feriscono il viso dell’infermiera, c’è il concetto dell’infermiera. C’è il concetto della fila per il supermercato. C’è il concetto dell’uomo solo sulla scala mobile. Che poi, uomo… chi lo sa… essere umano. Di nuovo, io, te, la persona che ami di più al mondo. 

È un libro forte. Davvero. Ci sono alcune foto della terapia intensiva in cui l’immagine del paziente mi fa venire in mente un riferimento artistico preciso che è quello del “Cristo morto” del Mantegna: volume, sofferenza incomunicabile, e colore. 

800 pagine di foto così, non sono noiose? No. Perché ogni scatto così sfumato racconta più di quanto potrebbe fare la foto più realistica: ogni scatto è una stazione della Via Crucis di questa umanità che non sa più vedere la sofferenza, e la scopre solo quando entra a forza nella propria vita, attraverso un accesso venoso o un tubo tracheale. 

Io sono felice di avere questo libro nella mia casa e nella mia vita. E ve lo volevo dire.

In testa, la foto della copertina del libro “Virus” di Antoine D’Agata

6 risposte a "Quando l’ho aperto, sono rimasta senza parole…"

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    1. grazie infinite!!! ho avuto qualche problemino di salute che mi ha messo in stand by, ma spero di riuscire a riprendere con buona lena. I complimenti aiutano sempre… grazie davvero ❤

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